The books chosen by Andrea Salonia
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“La mia vita non è qualcosa che si debba misurare”.
Difficilmente avrei potuto trovare incipit più concreto e dicotomico per la Pillola del DOC di oggi. È lì, nelle poche densissime pagine de Il nostro bisogno di consolazione, apparso nel 1952 grazie alla penna anarcoide e disperata di Stig Dagerman, pubblicato da Iperborea con la traduzione di Fulvio Ferrari.
Anche questa volta è stato lui stesso a magarmi; il libro intendo. Il titolo, forse inconsciamente già di suo una captatio benevolentiae. La copertina in un tenue campo giallo-arancio e delle gambe che paiono muoversi verso un dove, che tanto mi han ricordato una foto di Joseph Beuys, lui che quanto a disperazione e consolazione di certo aveva pochi rivali.
“La mia vita non è qualcosa che si debba misurare” è una sentenza, un uppercut bello e buono, uno di quei colpi tremendi che ti arrivano al volto o alla bocca dello stomaco lasciandoti stranito e senza fiato. È l’esatto contrario di come mi sembra di aver vissuto – con passività – negli ultimi cinquanta dei miei cinquantadue anni (lascio un beneficio di inventario ai primi due dove felicità e gioia e stupore e sogni e pianti inconsolabili erano un tutt’uno, di cui purtroppo ho poco o punto memoria).
Ogni passaggio delle giornate, le mie come le nostre, di noi tutti, è stato scandito da un’incessante e inequivocabile necessità di misurazione. Dagerman – che mi piace sempre più – lo dice in relazione al tempo (è vero, peraltro, mi dico: ogni attimo dell’esistenza è soggetto alla quantificazione del tempo, alla pressione claustrofobica del tempo). Ma si potranno mai scrivere parole tanto belle:
“…Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente…”. No, credo di no, anzi ne sono pressoché sicuro (qualcuno ha detto: “la bellezza salverà il mondo”; quanto bisogno ne avremmo, come dell’ossigeno per i polmoni!). Purtroppo, non sono nemmeno capace anche solo di immaginare che tutto ciò che di importante mi accade, conferendo alla mia vita il suo contenuto meraviglioso o raccapricciante, sia o possa essere totalmente al di fuori del tempo. Io accredito gli accadimenti del vivere ai secondi ai minuti alle ore ai giorni alle mattine e ai pomeriggi alle settimane ai mesi e agli anni. So quando mi sono diplomato, ricordo e colloco nel tempo l’estate della maturità e noi quattro amici nel mare turchese di Turchia a ridere e divertirci, radiosi dell’inconsapevolezza degli anni dopo. So quando mi sono riconosciuto per quel che sono, e per altro che non sarei mai potuto essere, ed era il terzo anno di università. So quando sono diventato medico, ho conseguito la laurea, ed era un giorno ottobrino, con una pioggia battente che oggi ci possiamo soltanto sognare. E poi il mio primo paziente, quello che mi ha fatto decidere che il mio futuro sarebbe andato in una direzione e non in altre, sparigliando le carte in tavola. Tutto è stato misurato dal tempo, tutto è stato millimetricamente pesato dal giudizio (mio, in primis e forse solamente) dei risultati conseguiti e dalla necessità del meglio, del meglio che ci sarebbe stato il giorno dopo, il mese dopo, l’anno dopo. Ancora Dagerman: “Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me…”
Chiudo, ancora con Dagerman, che era a caccia di consolazione. Consolazione che a parer mio è sfumatamente differente da conforto e sollievo; è più prossima a ristoro e alleviamento, e davvero è tanto lontana da gioia, letizia o contentezza. È refrigerio nell’arsura, è tepore nel gelo stiletto dei giorni più freddi. Dagerman cercava la consolazione come il cacciatore la sua preda, ma non sono in toto convinto anelasse con determinazione convinta (perdonatemi il gioco di parole) al trovarla, scrivendo lui stesso che il suo tiro durante la caccia andava a vuoto – almeno qualche volta – perché anche se trovata infine la consolazione rischiava di avere la durata di un alito di vento nella chioma di un albero.
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Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, Milano, 1991
Edizione originale: Vårt behov av tröst, 1952