The last white man

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The books chosen by Andrea Salonia

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Trovo meravigliosa la diversità, l’eterogeneità, la differenza, la dissomiglianza, la molteplicità, la varietà. E quest’ultima poi mi piace davvero molto, perché i suoi sinonimi sono molteplicità, assortimento, ricchezza, scelta. Varietà e diversità di colore: giallo, rosso, verde, marrone, nero, rosa, rosa antico, rosa pallido, rosa perlato, grigio, arcobaleno. Differenza e molteplicità di idee, pensieri, opinioni, credo. Dissomiglianze di aspetto: naso grande, naso aquilino, naso alla francese.

Piede del trentasei, del trentotto, del quarantacinque, che già regala l’idea di una persona grande, alta, piantata a terra come di quegli alberi antichi lì da tempo immemore, da sempre perfino, ad ascoltare le parole, i pianti, le risa, il tempo stesso. Eterogeneità delle mani: mani grandi, mani piccole, mani medie. I personaggi/persone di cui scrivo nei miei romanzi in genere han proprio mani tutte diverse tra loro, e così le riconosci, per le mani medie e morbide, piccole e stizzose, grandi e coi calli, mani pacate, mani senza nerbo alcuno. Meraviglia, incanto, entusiasmo e sorpresa per quanto tutte cose possano essere assortite e tanto inuguali, e pertanto ricche di una ricchezza fatta di altro che dal “banale” luccichio.

Ma attenzione: diversità tra i suoi sinonimi ha anche accezioni meno piacevoli, quasi dispregiative, più o meno spietatamente negative. Divario. Disuguaglianza. Divergenza. Disparità. Discrepanza.

Dislivello. Squilibrio. Scarto. Sbalzo. Lontananza. Tutto sta nel come le parole, questi spettacoli di lettere che si fan sillabe e poi – appunto – parole, vengono a esser lette e interpretate. Ora, immaginiamoci che tutto sia omogeneo, neutro, incolore, identicamente incolore. Senza una sfumatura che ci dica dove una cosa finisca e l’altra inizi. Pur bello da bagnarti gli occhi, il mare che non finisce col cielo all’orizzonte, i due un sol uomo: una emozione forte…ma se così fosse sempre e ovunque? Per questo mi spaventa molto il concetto di “global” (mai avrei voluto usare un termine che non fosse della mia amatissima lingua del sì, ma qui davvero nomen atque omen).

Favoloso dare a tutti le stesse opportunità, di grande seduzione annullare le differenze ingiuste, e che pensiero affascinante sarebbe che l’acqua fosse sempre e ovunque di tale trasparenza da guardarci attraverso senza rifrazione alcuna. Ma anche che impoverimento!

Un amico tanto saggio, colto, intelligente, collerico, istrionico, e barbuto mi ha detto che a tendere, a tendere certo ma chissà quando, saremo una sola etnia – chè io odio il termine razza – nel senso di un solo colore, uno strepitoso mélange, un unicum di bianchi, rossi, gialli, ocra, color terra bruciata e terra bagnata, color castagna e albicocca e nocciolo e tutti insieme. Perché è lì che i popoli andranno, perché ci si muove, ci si ama, e dall’amore di colori diversi nasce il caffè latte e le differenze sfumano, fin a perdersi. Ritengo questo sia un pensiero anti-filogenetico, che ci porta ben oltre ciò che madre natura ha preservato – con forza e a dispetto di tutto – appunto nella filogenesi.

No, quello di cui narra L’ultimo uomo bianco di Mohsin Hamid, tradotto con maestria da Norman Gobetti, e pubblicato per i tipi di Einaudi con una copertina che non può lasciarti indifferente, è cosa altra. Fantasticate, infatti, che il perdere le diversità sia un evento progressivo. Che tutto inizialmente sia come oggi son le cose, diverse, persone di colori diversi, e poi, pian piano ma con una certa repentinità nei giorni, ecco che uno diventi di un altro colore, quello sbagliato secondo la retorica imperante, e dopo di lui un altro, e poi e poi altri ancora, tutti infine, finché l’ultimo che rimane com’era – bianco, bianco, bianco, bianco, che per davvero è rosa/grigio – muoia e vada sottoterra e chi se ne ricorderà più? E sebbene tutti cadano nel cioccolato, o si abbronzino, come abbiamo già sentito mal-dire, fintanto che ciò capita di accadere solo ad alcuni, ecco che gli altri stigmatizzano, scotomizzano, urlano imprecano e usan violenza. Perché benché tutti vadano in quella direzione, loro che ancora non sono divenuti altro perseverano nell’essere meglio, meglio e non lo si può certo negare, così scrive ne il romanziere ne L’ultimo uomo bianco.

E come vi percepireste se svegliandovi una mattina foste altro da ciò che eravate andando a dormire la sera prima? Persone nuove? Nuove persone? Con più parole affettuose, o senza affetto alcuno, per voi e per l’intero orbe terracqueo? Ecco, L’ultimo uomo bianco narra di come il mondo, bello e sferico, eserciti una forza di gravità su quanti ci camminano sopra, in apparenza in modo uguale per tutti, ma in realtà non uguale, niente affatto uguale. Fuor di facile e verbosa narrazione delle disuguaglianze, dei razzismi, delle opinioni politiche, dei primati e dei primatismi (che ridere se pensaste bene alla antropologia e alla zoologia insite in questi due termini…), che molto mi dan noia e sono certo abbiano stancato tutti voi che leggete in assoluto e qui, il romanzo di Mohsin Hamid è denso di tanto più che del solo inno alla valorizzazione dell’altro. Anzi, non è neppure quello che più emerge. C’è anche l’inter- generazionalità. Ci sono le parole non dette, quelle dette ma mancanti tra genitori e figli e ancora genitori. Ci sono occasioni perse, occasioni prese, occasioni mancate, opportunità lacunose, insufficienti e incompiute, amori non riconosciuti e amori ritrovati.

L’idea è geniale, una di quelle capaci al tempo di magare e gettare nel terrore più cupo. Potendo farlo, fossimo noi ciò che Mohsin Hamid è e rappresenta, forse avremmo osato anche di più, con più pervicacia, con più coraggio. Insomma, avrei davvero afferrato uno stiletto, senza pietà, magnificando “il diverso” come una occasione strepitosa di arricchimento, celebrando la necessità di essere altri dagli altri.

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Mohsin Hamid, L’ultimo uomo bianco, Einaudi, Torino, 2023

Original edition: The last white man. Penguin, 2022

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