Written by Valentino De Bernardis
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In qualsiasi latitudine del mondo il primo giorno di scuola è un avvenimento cruciale. Essere assenti è uno degli eventi più sfortunati che possa accadere ad un adolescente. La scelta del posto a sedere, il compagno di banco, i possibili rifugi dal campo visivo dell’insegnate: strategia pura.
Gli studenti della Pubblic Royal High School di Liverpool in Inghilterra non rappresentavano eccezione, e tra di loro neppure Connie Patel. Lei ne era consapevole, ma era un prezzo accettabile per poter seguire il padre nel prolungamento di una vacanza-lavoro, nel sud-est asiatico.
Il signor Patel aveva provveduto nel mese di giugno all’iscrizione della figlia, così come a contattare in via privata alcuni dei futuri professori per organizzare ripetizioni a pagamento, e poterle permettere di recuperare il mese e mezzo di lezioni che avrebbe perso. Purtroppo l’unico punto su cui non poteva agevolare l’inserimento della figlia a scuola era la scelta del posto a sedere. Si sarebbe dovuta accontentare di colei (o colui) che il caso le avrebbe proposto.
Un sottile filo rosso di timori, aspettative, speranze, disillusione, legava due fiori inconsapevoli dall’isola britannica alla penisola indiana, e si andava riavvolgendo in un gomitolo di lana sempre più grande con il ritorno a casa dei Patel.
Una ventosa mattina di metà novembre, le congetture presero sembianze umane. Connie, una ragazzina di quattordici anni dalle pelle dorata dal sole indiano, venne presentata alla classe. Ethan O’Shaughnessy, un ragazzino di tredici anni dalla pelle sbiancata dal sole insulare, ascoltava e studiava da lontano la piccola figura dai capelli lunghi. Il gomitolo era completo. La pioggia battente sulle finestre dell’aula diede la benedizione all’incontro.
“Come mai nessuno si è voluto sedere vicino a te?” furono le prime parole dirette e indelicate che Connie rivolse a Ethan al suono della campanella.
“Forse sono io che non mi sono voluto sedere vicino agli altri.” fu la risposta indiretta e delicata che Ethan diede senza un attimo di esitazione.
Il seme dell’amicizia tra i due ragazzi crebbe forte e inaspettato, capace di resistere alle prese in giro di alcuni compagni, alle tempeste ormonali indomabili, al professore di letteratura inglese e alla sua strana teoria di far cambiare ogni anno compagno di banco alle coppie che vedeva troppo affiatate.
Sono passati anni lunghi secoli dalla mattinata autunnale, e sebbene oggi la giornata sia serena, Connie prende a crogiolarsi in quei ricordi, mentre attende Ethan alla fermata del 3 a Milano. Deve essere stata l’attesa di un volto familiare, lontano da casa, a farle tornare in mente memorie dell’adolescenza.
“Finalmente ti sei deciso a venire in Italia!” dice Connie.
“Ciao!” prima di ogni parola si dilunga in un sentito abbraccio multicomprensivo. Nessuno dei due ricorda l’ultima volta in cui si sono visti, ma non ha importanza. Quando quattro anni si riducono a quattro minuti, quando basta uno sguardo a riprendere un discorso mai terminato, e non ci si riesce a staccare dal corpo della persona attesa da troppo tempo, si è in presenza della vera amicizia.
“Come stai? Ti trovo benissimo.” desidera e trova un secondo abbraccio di uguale intensità per essere certa che sia realmente presente in carne e ossa.
“Quanto affetto! Ci sono, ci sono!” risponde senza rispondere. Connie nota come nonostante tutto Ethan appartenga a quella categoria di persone che non cambiano mai nel fisico e nell’aspetto con il trascorrere del tempo.
“Sei senza vergogna. Da quando mi sono trasferita in Italia ti ho invitato per tutte le feste, ponti e vacanze, ma tu sei riuscito sempre a svincolarti.”
In ultimo Ethan aveva persino rifiutato le profferte di ospitalità di Connie, preferendo alloggiare in un albergo a una stella cadente alle spalle della Stazione Centrale.
“Ahahaha,” sorride divertito “per caso ti ho detto come ho fatto a racimolare i soldi per il biglietto aereo?” a sua volta Ethan nota come la lunga permanenza a Milano non abbia modificato il suo modo di vestire inglese anni ottanta.
“No, ma ora lo voglio sapere. Se sei partito con la British devi aver speso un patrimonio.”
Fin da ragazzino Ethan non era mai riuscito a mettersi dei soldi da parte, ma non per mancanza, piuttosto per un semplice problema di gestione del denaro. Sebbene guadagnasse trenta sterline a settimana, con la consegna mattutina di giornali nella zona di Islington, ne spendeva quaranta, non equamente divise, tra biglietti di partite di calcio, alcolici, sigarette e stupide scommesse più o meno legali. Per forza di cause maggiori divenne una barzelletta divertente tra i compagni di classe: l’unico tra di loro ad avere un lavoro, era l’unico a dover chiedere perennemente soldi in prestito.
“Mettiamola così: se il Southampton non fosse riuscito a pareggiare sabato all’Old Trafford, questa conversazione non avrebbe avuto luogo.” si lascia distrarre come un adolescente dal viavai di ragazze italiane che camminano su tacchi altissimi. Dalla lunga serie di bancarelle di fruttivendoli sudamericani arriva un buon odoro di frutta di ogni specie e colore.
“Ah, dai Ethan, ancora con questo vizio?”
“No, scherzi? Per distrarmi faccio delle piccole giocate, ma nulla a che vedere con gli ultimi tempi di Liverpool. Lo faccio solo per provare l’adrenalina del gioco, ma senza impegnarmi in grandi cifre.”
A quindici anni raccoglieva i soldi della componente maschile della classe per andare a scommettere. Essendo proibito il gioco ai minori di diciotto anni, si serviva della compiacenza di un cugino del padre, proprietario di un centro scommesse, disponibile a chiudere entrambi gli occhi, e a giocarli come se fossero i suoi. Un modo come un altro per arrotondare le entrate, senza accorgersi che arrotondava le uscite.
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