Scritto da Ludovica Micalizzi
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Una casa matronale, isolata in cima alla collina di un piccolo borgo; due sorelle che vivono sole insieme allo zio disabile; l’arrivo inatteso di un lontano cugino. Sono questi gli elementi essenziali dell’ambientazione del romanzo della scrittrice statunitense Shirley Jackson ‑che con le sue opere spaventò il maestro dell’horror Stephen King‑ dal titolo “Abbiamo sempre vissuto nel castello” (We have always lived in the Castle).
Mary Catherina Blackwood, chiamata Maricattie, la minore delle due sorelle che vivono nella grande casa è la voce narrante. La sua è, tuttavia, una storia alterata dalla percezione distorta epersonalissima che ha della realtà: il suo è un mondo fatato, la casa e il giardino che la circonda gli unici luoghi sicuri dalle minacce e dalla cattiveria dei concittadini che, stando alle sue parole, odiano da sempre la famiglia Blackwood e vorrebbero solo cacciarli dal paese. Il personaggio della sorella maggiore, Costantine, è altrettanto interessante: accusata e poi scagionata per l’omicidio della sua famiglia, non esce mai dalla loro proprietà e la sua sola occupazione è prendersi cura del giardino, dello zio e di Maricattie.
Tutto scorre serenamente fino al giorno in cui non arriva «un grande cambiamento» ovvero l’intrusione nelle loro vite del cugino Charles. Il giovane si cala subito nel ruolo di uomo di casa incarnando la figura forte e rassicurante che a loro manca da molto tempo. Il cugino esemplifica il mondo al di là del cancello che vuole riportare forzatamente alla realtà le sorelle Blackwood liberandole da quel senso di frustrazione che le accompagna da sei anni e che non li consente di inserirsi in società serenamente. Ma la sua presenza non viene accolta positivamente né dallo zio né da Maricattie; è lei, infatti, a causare la sua dipartita e a sancire la chiusura totale e definitiva della sua vita e di quella di Costantine da tutto ciò che c’è all’esterno.
Il senso di colpa costante per ciò che è accaduto, il rapporto morboso che lega le due sorelle e le porta a difendersi reciprocamente anche contro le evidenze, la punizione autoinferta nel non avere più contatti con altri al di fuori della casa, sono i tratti caratterizzanti un mondo distopico falsato dall’inconscio silenzioso (la vera fonte della paura) presente in ognuno di noi che porta a nasconderci dalle nostre colpe e a cercare da soli la soluzione a problemi di cui spesso non riusciamo ad avere una reale percezione.
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Shirley Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello, Adelphi, Milano, 2009