“Forse sarò sempre solo questo: uno che è andato via.”
Viola Ardone ci racconta una realtà poco nota, ma che fa parte della storia italiana: da un’iniziativa del partito comunista, dal Sud partono dei treni carichi di bambini, strappati dalla miseria in cui vivono nelle loro case, che saranno affidati temporaneamente a delle famiglie emiliane. Siamo nell’Italia del 1946, un Paese che deve essere ricostruito dopo il secondo conflitto mondiale; per la precisione la storia pone il suo primo focus a Napoli, dove vive il nostro piccolo protagonista di sette anni, Amerigo Speranza, insieme all’unica figura che compone la sua famiglia: la madre Antonietta.
Così vediamo il piccolo Amerigo, un bambino furbetto e coraggioso, salire su un treno e abbandonare la madre per raggiungere nuove realtà del tutto sconosciute. È una storia in cui il protagonista ci racconta la sua vita costituita da abbandoni e ricongiungimenti. Eppure la domanda che l’autrice ci lancia è: quanto e per quanto tempo ci determina il luogo in cui viviamo? Attraverso questa storia scopriamo che non esistono molte certezze; è difficile capire chi siamo.
Oltre la trama raccontata, quello che si scorge con una attenta riflessione è l’estremo e personalissimo bisogno di ricevere e donare amore da parte di ogni personaggio della vicenda. Amerigo non sa che cosa siano i sentimenti, non sa che cosa siano le carezze e i baci di una madre perché gli abbracci non sono “arte sua”, ma sa riconoscere il calore e le attenzioni che gli saranno riservate nella nuova famiglia che su al Nord lo accoglie.
Amerigo è un bambino che è costretto a rimbalzare tra affetti, spesso difficili da manifestare: dalla rude madre, dai sentimenti grezzi, il cui massimo gesto è una “scoppola sulla testa”, a Derna, una donna che di notte canta delle ninne nanne al suon di bandiera rossa e bella ciao, ma di giorno fa fatica anche solo a comunicare con lui.
Quando il bambino ritornerà a vivere nel rione in cui è nato, tutto ai suoi occhi si rivela precario e privo di entusiasmo; dopo aver conosciuto i veri agi di una vita con dei fratelli, dei genitori, con l’affetto di una nuova madre, Amerigo non riesce più a riconoscersi e sa di avere delle alternative, ora che conosce un po’ meglio la realtà.
La voce narrante è ciò che ci ha più colpito perché subisce all’interno della storia una metamorfosi: prima è quella di un bambino di sette anni, che si esprime in un misto tra napoletano e italiano un po’ sgangherato e poi diventa un italiano perfetto, ma certamente sempre macchiato da venature dialettali.
È un libro da leggere perché ci racconta in maniera limpida una storia cruda, ma con una penna davvero accattivante: Viola Ardone è capace di farci passare da una risata improvvisa a una lacrima che cerca di farsi spazio tra i nostri occhi.
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Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, Torino, 2019
One comment
Giovanni Rinaldi
13 Maggio 2021 at 14:03
Spero potrà interessarla questa mia nota (e le altre che da questa si diramano) su alcuni problemi “a monte” del romanzo. Sono domande e riflessioni a cui, purtroppo, l’Autrice del romanzo non ha mai inteso rispondere (anche solo per confutarle).
cari saluti
Giovanni Rinaldi