Scritto da Francesca Sivori
Lo si scorge mentre arriva da lontano, e lo si riconosce subito.
Ha il gozzo più grande del paese, marrone con una striscia bianca sui lati.
E gli inconfondibili ‘segnali’ che spiccano alti a poppa: le aste ricche di bandierine che utilizza per riconoscere, sulla grande distesa del mare, il punto preciso dove ha gettato le reti o ha calato i palamiti.
Accorre la gente del piccolo borgo, lascia le case e si avvicina al molo: qualche triglia da mettere in padella, uno scorfano per la zuppa o magari delle seppie da fare in umido con i piselli.
Se poi si è spinto fin sulla ‘cavallina’, la grande secca al largo di Punta Chiappa, di certo ha portato naselli, pagelli e anche belle orate.
Pure i gabbiani, pigramente allineati sui bordi dei tetti, non appena lo avvistano, si fanno vigili in attesa di scollarsi dalle grondaie e gettarsi sui pesciolini che porta sempre per loro. Nelle reti se ne impigliano molti: la maggior parte li ributta in mare ma una bella manciata la tiene sempre per i suoi bianchi amici alati.
Tutti ad aspettare Pierangelo, l’unico pescatore rimasto nel piccolo borgo marinaro alle porte di Genova, il solo ormai che porta il pesce fresco in paese.
Una vita dedicata al mare, la sua. Al mare e alla famiglia.
Aveva dieci anni quando suo padre, il Baletta, pescatore nato, lo prese con sé in barca e cominciò a insegnargli il mestiere.
Primo di quattro figli, e con un altro fratellino in arrivo, il padre aveva bisogno di lui, il maggiore che fortunatamente era nato maschio. II mestiere era duro e la famiglia numerosa: ormai doveva buttare le reti almeno due volte al giorno; armare palamiti sempre più lunghi. Malgrado questo, il cibo, in tavola, scarseggiava sempre…
Il bambino, dal carattere mite e remissivo, cominciò quindi giovanissimo ad affiancare il padre e imparò presto a rinunciare ai giochi, agli amici, ai pomeriggi sui libri a studiare. Lui, che amava tanto la scuola, aveva chiesto a suo padre di fargli finire almeno le medie inferiori. Il padre aveva acconsentito, anche se voleva dire alzarsi molto presto alla mattina per non rinunciare ad avere il figlio in barca, prima che corresse, libri sottobraccio, a prendere il suo posto dietro al banco.
In classe, Pierangelo seguiva le lezioni con pregnante avidità cercando di non perdere nulla delle spiegazioni, nonostante il sonno lo assalisse spesso. Durante l’intervallo sbrigava alcuni compiti per l’indomani; approfittava dell’ora di musica e di religione o si chiudeva in bagno durante la lezione di educazione fisica per concludere i rimanenti.
Dopo la scuola non avrebbe avuto né tempo, né modo di farli: in casa bisognava alleviare il lavoro della mamma con i fratellini; e fuori, aiutare il papà con la pesca.
Quando i suoi compagni vennero a sapere che prima delle lezioni andava in barca a pescare, cominciarono a prenderlo in giro: “Pierangelo, lo sai come si fa a riconoscere da dove viene il vento?”, gli chiedeva uno. “Si mette l’indice in bocca per bagnarlo di saliva e poi lo si tiene in alto per capire quale parte si asciuga per prima!”, sentenziava un altro… e tutti scoppiavano a ridere.
Lui sorrideva alla battuta, faceva spallucce e tirava dritto.
E sulla strada verso casa, rifletteva che, qualunque fosse il modo per capire da dove spirano i venti, lui sapeva di avere un grande maestro: suo padre.
Scherzo o non scherzo, Pierangelo comprese velocemente che per essere un bravo pescatore era fondamentale conoscere bene i venti che divennero, fin da subito, i testi per apprendere i segreti del mare.
Il mare, la copertina; le nuvole, le pagine dei suoi nuovi libri.
Ogni vento, una storia.
Maestrale, Grecale, Scirocco, Ostro, Libeccio, Tramontana: da ogni punto cardinale ne nasceva uno, come dal pistillo i petali di una rosa.
Ognuno gli raccontava qualcosa di diverso, ognuno era portatore di un messaggio. Stava a lui decifrarlo e comprendere se fosse stato tempo di andare a pescare e quale tipo di pesca sarebbe stata la migliore.
Se si metteva Scirocco, Pierangelo apprese dal padre che per parecchi giorni non sarebbero potuti andare a pescare. Le nuvole sospinte verso terra, i monti che frenavano la loro corsa nel cielo e le rimandavamo indietro: bisognava attendere che il vento girasse, che Eolo si spostasse un poco e cominciasse a soffiare da Sud. Un bell’Ostro, vento di mezzogiorno, avrebbe cominciato a pulire il cielo; se poi il grande dio potente avesse tirato fuori tutto il suo fiato, sarebbe arrivato un forte Libeccio per completare l’opera. Il mare si sarebbe ingrossato fino a formare onde tali da sommergere anche gli scogli più alti della costa e le spiagge del litorale.
Le nuvole spazzate via, il cielo vuoto come le pagine di un manoscritto che attendono di essere riempite di frasi, di nuove parole. Pochi giorni e il mare sarebbe tornato calmo: dovevano farsi trovare pronti con reti cucite e palamiti armati.
D’inverno quando il Maestrale era particolarmente freddo, il mare si colorava di un blu scuro quasi grigio: allora, bisognava buttare le reti in profondità per poter prendere qualche pesce.
In estate, invece, quando spirava solo una leggera brezza e l’acqua era verde-azzurra cristallina, potevano gettare le reti poco sotto la superficie.
Alla sera, durante tutta la sua vita, non avrebbe mai mancato l’appuntamento con i suoi scrittori: prima di rientrare a casa, un ultimo sguardo al mare e uno al cielo.
I venti, lo sapeva, avrebbero disegnato per lui il tempo delle prossime ore, ognuno con la sua inconfondibile firma.
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