Written by Franco Casadidio
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“Vedi Luca, una volta ogni nazione aveva la sua moneta e tra un Paese e l’altro esistevano dei posti di polizia in corrispondenza dei confini, così ogni qualvolta se ne attraversava uno, si veniva sottoposti a dei controlli. Venivano richiesti i documenti e, in alcuni casi, si ispezionava l’automezzo per assicurarsi che non si trasportasse nulla di illecito. Come se non bastasse, ogni volta che si lasciava l’Italia per andare all’estero bisognava recarsi in banca e cambiare la nostra moneta nazionale, la Lira, con le monete dei Paesi da visitare; tanti Paesi, tante valute diverse”.
“Incredibile! Neanche questo mi avevi mai raccontato”.
“In effetti rispetto ad oggi era un vero e proprio incubo. Ora siamo un po’ tutti cittadini di un unico grande Paese, l’Europa e…”
“Ma papà, l’Europa è un Continente, non una nazione!” – puntualizzò subito il ragazzo.
“Se mi avessi fatto terminare il mio pensiero senza interruzioni – riprese Franco fingendosi arrabbiato – ti avrei spiegato che intendevo dire che, grazie all’Unione Europea, i cittadini di tantissime nazioni diverse si trovano finalmente a condividere la stessa moneta e sono liberi di viaggiare senza troppe formalità, proprio come se vivessero tutti in un unico Paese, anche se in
effetti questo Paese equivale a un continente”.
“Ah ecco, così va meglio”.
“Grazie, professore, vuol dire che ho risposto esattamente?”
“Non scherzare papà, sai che sono un tipo preciso, un po’ tedesco insomma!”.E già, lo sapeva bene Franco quanto fosse pignolo quel suo ragazzo, perfino più di lui, per cui a quell’affermazione non poté fare a meno di scoppiare in una risata, seguito a ruota dal giovane. Dalle nuvole, che avevano fatto capolino all’orizzonte non appena imboccata l’autostrada del Brennero, cominciò a scendere una leggera pioggerellina che accompagnò i due fin quasi al confine.
“Quando arrivaste a Monaco?”
“La domenica mattina, il primo maggio, alle nove circa eravamo davanti all’albergo. Ricordo ancora il nome: Hotel Econtel. Per me che non ero mai stato in un hotel, quel soggiorno era già una novità…”
“Non eri mai stato in un hotel? Ma com’è possibile?” intervenne Luca meravigliato.
“Anche se può sembrarti strano è così: non ero mai stato in un hotel in vita mia, come altri miei compagni del resto”.
“E com’era questo albergo?”
“Era molto bello; pensa che dalla finestra della camera si intravedevano le torri della Frauenkirche”.
“E’ in quella circostanza che ti sei innamorato di Monaco?”.
“Sì, è stato proprio durante quel viaggio. Ad essere sinceri amavo la Germania fin da piccolo, pensa che quando ero bambino e c’erano i mondiali di calcio, tifavo per la Germania: ricordo ancora le figurine Panini con Mayer e Beckenbauer, due miti e…”
“Papà, io ho fame!” sentenziò lapidario Luca, incurante dei ricordi calcistici del padre.
“Hai fame? Ma se non hai mai smesso di masticare da quando ti sei svegliato? Va bene, dai, mancano pochi chilometri alla prossima area di servizio”.
Il pasto venne consumato velocemente per riprendere il viaggio verso la Baviera.
“Guarda papà, cos’è quello?”. Erano circa le quattordici quando i due, superata Innsbruck, videro sfilare alla loro sinistra l’enorme e suggestiva fabbrica Swarowski.
“Siamo vicino Wattens e quella è la sede principale della Swarowski; hai presente tutti quei bellissimi oggetti fatti di cristallo che io amo tanto?”
“Certo che sì, piacciono tanto anche a me. Non hai terminato di raccontarmi la tua prima volta a Monaco; ce la fai a finire la storia?”
“Penso di sì, dove eravamo rimasti? Ah sì al nostro primo giorno in Germania. Al pomeriggio incontrammo la nostra guida, una simpatica signora italiana che aveva sposato un tedesco e viveva a Monaco da qualche anno e lei, oltre ad illustrarci molto bene le attrazioni turistiche della città, ci parlò a lungo anche del carattere dei tedeschi, del loro stile di vita, dei loro modi di fare e di quel pomeriggio mi colpirono particolarmente due cose. Lungo la Maximilianstrasse incrociammo una giovane coppia che passeggiava insieme al loro bambino di pochi mesi; la carrozzina era spinta dal padre e la nostra guida sottolineò questo aspetto che per noi italiani risultava, a quei tempi, ancora insolito, dato che in Italia questo gesto veniva compiuto quasi sempre dalla donna.”
“Non capisco – intervenne il giovane – cosa ci sia di strano nello spingere una carrozzina: che lo faccia l’uomo o la donna cosa cambia? Sono entrambi genitori no?”
Questa riflessione, apparentemente ovvia, fece capire a Franco quanto fosse grande la distanza tra la sua generazione e quella del figlio, quanto fosse cambiata la società italiana negli ultimi tre decenni.
“Hai ragione – provò ad argomentare – però devi capire che per quei tempi e soprattutto per una mentalità provinciale come la nostra, quel gesto era quasi rivoluzionario”.
“Bah, se lo dici tu sarà certamente così – commentò il giovane – comunque continuo a essere convinto che non ci sia nulla di strano. Quale fu l’altra cosa che ti colpì?”
“L’altra cosa riguardava più direttamente noi giovani ed era uno dei motivi per cui molti di noi erano contenti di andare in Germania: le ragazze. Eravamo convinti che in Germania avremmo trovato folle di ragazze alte, bionde e con gli occhi azzurri che non aspettavano altro che noi. Naturalmente non era così ma qualcuno non si arrendeva all’evidenza e non mancava mai di sottolineare l’avvenenza di ogni fanciulla incrociata per strada lanciandole sguardi languidi e commentando ad alta voce le doti fisiche”.
“Insomma vi comportavate da perfetti italiani in gita eh! Sempre riconoscibili per i loro comportamenti da belve alla perenne ricerca della loro preda, anzi, diciamo pure, da mandrilli!” Il commento del figlio arrivò come un pugno alla bocca dello stomaco dell’uomo.
“Si dà il caso che io non mi sia mai comportato da “mandrillo” come dici tu e non abbia mai fischiato appresso alle ragazze – tedesche e non – per cui…”
“…ciò non toglie che quando andiamo all’estero ci facciamo sempre riconoscere. Dai papà, lo dici sempre anche tu!”. Era vero, lo diceva sempre anche lui e per questo motivo Franco fu costretto ad incassare il colpo senza ulteriori repliche.
“La guida ci spiegò che, al di là dei luoghi comuni, anche i tedeschi amavano le belle donne e sapevano apprezzarle incontrandole per strada ma, contrariamente a noi italiani, evitavano di fare commenti a voce alta o, peggio ancora, di fischiare in segno di apprezzamento. Ecco, questa cosa mi è sempre rimasta impressa e me la sono portata dietro per tutta la vita. Cosa ne pensi?”.
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