“VENERDÌ RE-VERSO”
“Per un’ora rimase a contemplare le grandi nubi di perla perennemente sospese sopra l’orizzonte, e dalla loro bellezza trasse un senso di rassegnazione che non permise alla ragione di esaminare.”
Giriamo per gli scaffali stracolmi di novità su cui per umiltà intellettuale (o per decenza) non sentenziamo ma che chiaramente poco hanno da dirci. Inaspettato, lì, in un angolino, mite e dimesso, un piccolo volume blu – questa è la novità che solletica la nostra inquieta ricerca. Sa va sans dire, è stato scritto nel 1927. Segue breve sospiro di rassegnazione. Questo libercolo, di cui non sapevamo nulla, ha non solo vinto il Pulitzer nel 1928, ma anche avuto grande successo di pubblico, di critica, infiniti adattamenti teatrali e cinematografici… e noi, lettori inconsapevoli, lo maneggiamo con stupita curiosità, pronti, a questo punto, a svelarne il mistero.
“Il ponte di San Luis Rey” è – bellissimo? commovente? divertente? banalità! Si diano nuovi aggettivi, si renda omaggio alle parole con un briciolo di inventiva. Sveliamo la trama e proviamo ad arrivarci per gradi.
“Venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, il ponte più bello di tutto il Perù crollò e cinque viandanti precipitarono nel burrone sottostante”. Fatto di cronaca, incipit e fine della trama. Meglio: a questo incidente, nella finzione di Wilder, assiste un fraticello italiano, la cui assoluta convinzione è che “O viviamo per caso e per caso moriamo, o viviamo secondo un piano e secondo un piano moriamo”. Definitivo. Cercare di svelare quale delle due sentenze risponda a verità diventa così il lavoro di una vita ossia scoprire, attraverso una disamina puntigliosissima (che il romanzo rivede a beneficio del lettore) delle vite dei cinque precipitati, se essi meritassero o meno un tale “atto di Dio” (ché d’altro non può trattarsi).
È ben chiaro che se questo libro ci fornisse delle – o anche solo una risposta, al rogo millenni di letteratura, scienze e religioni, crisi esistenziali e dubbi di qualunquismo (cantava quel tale). Non v’è risposta. Del resto, lo sappiamo, contano sempre di più le domande. Ma, in questo caso, il tentativo, delicatissimo, di raggiungere una conclusione è struggente nella sua poetica, ironica, malinconica impossibilità: ne nascono personaggi grotteschi, affascinanti, luminosi, doloranti, così umani nei travagli dei loro cuori che non possiamo in alcun modo giudicarli. Come non vi riesce Fra’ Ginepro, perso nel dedalo inestricabile dei vizi e delle virtù degli “indagati”, così noi, che a guardar bene siamo tutti “a volte marci a volte buoni” (cantavano degli altri).
“Esistono cento modi per stupirsi delle circostanze”: c’è chi si sente sconfitto, che pensa di trovare una chiave, chi si ritira dal mondo, chi guarda le stelle. Thornton Wilder, che non era un pessimista, riesce a trovare una trama di senso che unisca tutti i fili in un finale che, per la decisione con cui è enunciato, bada a non essere stucchevole (e di cui ovviamente non riveliamo nulla, per chi ci avete presi). C’è un ponte da attraversare, banalizziamo pure e chiamiamolo vita. Non c’è per noi un Fra’ Ginepro che indaghi la nostra storia, per decretarne la direzione o la totale insensatezza. Siamo noi giudici e guardiani delle nostre coscienze, noi che abbiamo grandi dolori nel cuore, giustizia e grandiosità, ossessioni “nel fulcro rovente della mente”. Attraversiamo il ponte sapendo che può spezzarsi da un momento all’altro oppure leggeri e inconsapevoli, con lo sguardo già dall’altra parte del burrone. Scrive Wilder, in una lettera ad un amico: “A me pare che i miei libri parlino della cosa peggiore che il mondo ti possa fare, e delle risorse estreme con cui contrapporvisi”. Noi pensiamo che l’abbia fatto con grande umiltà di sguardo e, ultimo ma non ultimo, con un acuto e genuino amore per le parole precise che quello sguardo hanno raccontato.
Recensione di Delis
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Thornton Niven Wilder, Il ponte di San Luis Rey, Sellerio, Palermo, 2023
Edizione originale: The Bridge of San Luis Rey, Boni & Liveright, New York, 1927