“VENERDÌ RE-VERSO”
“Nessuno è mai venuto fuori a dire – Cristo, sto male da crepare – Nessuno, capisci?”.
Apre il libro una lunga prefazione di Fernanda Pivano che con navigata sapienza ci spiega perché e come Bukowski sia diventato un gigante della letteratura: se è questo che desiderate approfondire, leggete lei, che è meglio. Vi sta poco simpatica? Anche a noi, sebbene, lungi da qualsivoglia simpatia o antipatia, il suo merito di traghettatrice culturale ci sembri indiscutibile. Non vi piace Bukowski? Lo possiamo comprendere. Ma se mai nella vita vi è capitato di pensare, anche solo di sfuggita, qualcosa come “Il mattino dopo era mattino e io ero ancora vivo”, il vecchio Buk ha qualcosa per voi.
Chi qui scrive lo ha molto amato, in quei pomeriggi adolescenti di altalene emotive, alla ricerca di uno specchio al proprio malessere, di un appiglio, uno straccio di sensatezza in cui riconoscersi. Girava con “Storie di ordinaria follia” nello zaino, a decenni di distanza ancora recita a memoria alcuni stralci di “La più bella ragazza della città”; leggere a trent’anni questa intervista è ritrovare un vecchio amico, sorridere di tante ingenuità, provare a capire un po’ meglio chi eravamo allora e chi era, in fondo, uno come Henry “Hank” Charles Bukowski.
“Io non analizzo mai, mi limito a reagire.” – reagire alla vita come lo ha fatto lui, beh, ci vuole del fegato (in tutti i sensi). Se si decide di ridurlo ad un vigliacco, maschilista, alcolizzato, si sceglie di non capire la grandezza di un concetto come quello dell’eterno ritorno. La professoressa di filosofia del liceo ce lo spiegò così: la vita è una merda (testuale) ma io scelgo di rivivere tutto daccapo, così come è già stato. Senza evitare lo schifo, il dolore, la tristezza, la sporcizia. Ci sguazzo senza cercare di capire perché o come, e già che ci sono, se mi chiamo Bukowski, butto fuori un migliaio di poesie che sputano in faccia alla grandiosità, trasformandosi in iperboli di bellezza.
Voleva scrivere, alla fine di quello gli importava; e aveva abbastanza paura di morire da non rassegnarsi. Lo ha fatto, scrivere, quando si è sentito abbastanza pieno da avere qualcosa da raccontare (non aveva vissuto abbastanza, prima, dice, e a buon intenditor…). Per chi ha passato la vita con il cervello in fermentazione e insieme con la sensazione di non riuscire a tirarne fuori mai nulla di buono, da quello stramaledettissimo fermento, leggere Bukowski equivale a un corso accelerato di buddhismo zen. Gli ingranaggi rallentano, il battito si quieta, il respiro si fa regolare. Quando a quindici anni leggiamo “Le 3,16 e mezzo” e anche noi caschiamo dal sonno, quando lo sentiamo imprecare e vorremmo farlo anche noi, quando ci accorgiamo che tutto quel che cercava di fare era non essere “intrappolato a dire qualcosa di grandioso o insolito” e nemmeno noi ci sentiamo grandiosi, e non riusciamo proprio a pensare che, forse, va bene così. “Non sarebbe eroico non essere degli eroi?”, cantavano gli Afterhours, e forse ogni ragazzetto in panne con la vita dovrebbe sentirselo dire, e anche il ventenne bocciato al primo esame d’amore, e anche il trentenne piegato dal precariato e così via.
Bukowski scriveva, aveva lì la sua ragion d’essere, in quelle parole che in mille modi ripetono al lettore “OK, va bene”. Troviamo la nostra speranza nelle cose che ci fanno stare bene anche quando stiamo male – e la speranza è “l’unica cosa di cui un uomo ha bisogno”. Potete rivolgere qualunque obiezione moralista alle sue sbronze, alle sue scopate, alla sua volgarità, ma un saggio diceva che la vita non è una scuola per imparare le buone maniere, e sì, neanche leggere Bukowski va troppo in quella direzione. La letteratura, non dovrebbe andare in quella direzione: che bello non essere d’accordo, che bello il fastidio, lo schifo, le stonature, che bella anche la rabbia. Se quello che leggete in Bukowski vi sembra un elenco di brutture, pensate che ognuno ha le sue ma probabilmente passiamo la maggior parte del tempo a cercare di evitarle. E invece lui scriveva
“La saggezza è nelle tenebre, spazzare nelle tenebre come scope, vado dove sono andate le mosche dell’estate, acchiappatemi se vi riesce.”
Recensione di Delis
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Charles Bukowski, Fernanda Pivano, Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle, Feltrinelli, Milano, 2013 (prima edizione Sugarco, 1982)