I libri scelti da Andrea Salonia
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Come resistere a un romanzo il cui titolo recita “Quattro galline” ?
Io non sono riuscito: questa nuova scrittrice americana, Jackie Polzin, alla sua prima opera di parole, è stata davvero capace di catturare la mia attenzione. Lei, la copertina nera con una avvenente gallina di razza Dominicana, un geroglifico nero in campo bianco-crema, cresta e piccolo bargiglio rosso, e un grazioso becco giallo ocra, tendente all’arancio. Un plauso alla traduzione di Letizia Sacchini, delicata e rispettosa. Particolarmente efficace la traduzione italiana del titolo proposta da Einaudi Stile Libero: Quattro galline dall’originale Brood, covata.
Ecco, in queste poche righe iniziali son già racchiuse molte delle considerazioni che Quattro galline evoca. La razza Dominicana della gallina, perlomeno quella parrebbe, scelta per la prima di copertina; è una antica razza avicola dei coloni d’America – e infatti il nome in inglese suona Dominique, o anche Dominicker o Pilgrim Fowl – e questo romanzo è per molti versi un romanzo americano. Lo è per l’ambientazione, per le suggestioni, per il contesto socio-culturale, e per quella certa qual surreale e impossibile impossibilità a che le cose e gli accadimenti vadano in un determinato verso, che solo nei grandi spazi d’America sembra possano andare così, solamente sotto quei cieli e con quei venti e con quelle genti, in quel crogiolo di persone tanto diverse e tutte insieme.
Poi per il titolo originale, Brood = Covata, certamente meno abile nel catturare la attenzione, ma forse meglio diretto a uno – anzi, il principale – dei temi che la narrazione fa emerge come suggestione più rilevante dell’intero romanzo: il dar alla luce; uova e figli; la genitorialità; l’essere madre, l’essere padre; il non essere madre, il non essere genitore; le uova che non vengono prodotte; il non essere capace di far figli; le uova che si fan attendere; l’infertilità che soffoca; le uova che si rompono; le galline che muoiono e di quattro si fan una, e poi neppure quella; i figli che son morti in grembo prima di nascere; il vuoto che le galline lasciano quando non ci son più; il nulla cosmico che la perdita di una creatura condiziona ancor prima che la creatura sia figlio fatto di sorrisi e pianti e gioia e rabbia perché si spegne in grembo; il senso di protezione che scuote le membra e l’anima; la necessità di dar accudimento; l’ansia di difendere; l’inquietudine del salvaguardare; i dissapori del non detto; i progetti di vita che si frantumano come un guscio d’uovo caduto in terra, e…
E tutto questo con una delicatezza dolce ma autentica, con un senso delle parole scritte che sono schiette dalla prima all’ultima e al tempo dure, crude, senza che lascino alcun sospetto sulla crudeltà del vivere e delle cose che non sono, che non sono mai state o che non sono più. Proprio come le uova, e ancora prima, proprio come le galline, quattro, che hanno un loro nome proprio, e sarebbe impossibile non l’avessero. Un nome per ciascuna e ciascuna con un nome proprio in virtù di un colore, della personalità e non solo del piumaggio: Gam Gam, Gloria, Testanera e infine Miss Heppepin County, la gallina alfa, quella che se ne sta sempre in prima fila a godersi il calduccio della stufa. Perché c’è sempre un individuo alfa, in ciascuna comunità, e certo il cenobio avicolo non può deficere o distinguersi in tal senso.
Si può provare un senso di mancanza, di incompiutezza, di insufficienza, di perdita per la separazione da una gallina? Per un animale che sembrerebbe semplicemente vivere giornate fatte di becchettamento del terreno, caccia al lombrico, raccolta di sassolini per arricchire il guscio delle uova, rumoreggiamenti nel cortile, appollaiarsi sul trespolo, dormire e attendere nel beato far nulla, generare fragilissimi sassi ovali di colori differenti, espressioni della propria genetica e delle granaglie che si son mangiate, dell’acqua che si è bevuta e del sole sotto il quale ci si è beatamente crogiolati? La riposta è assolutamente sì, e la Polzin ben ce lo racconta, perché a lei le galline mancheranno e la possibile futura mancanza determina già un senso di smarrimento e vuoto, che l’autrice descrive come la manifestazione più alta di nostalgia, ovvero l’anticipazione viscerale della mancanza. Perché la protagonista del romanzo, madre delle galline, custode e tutrice, loro “campione” – come avremmo detto in un’epoca di cavalli e cavalieri in tenuta d’armi – la sua covata non l’ha mai potuta fare, ed è in quello che la visceralità del bene non dato, degli abbracci mancanti, dell’innaturale separazione dei corpi pervadono tutte le pagine di Quattro galline, rendendolo un romanzo ironico e durissimo insieme. Fatto di incontri causali, densi della natura ineluttabile e disperata delle cose, così scrive.
La protagonista lava e pulisce, le case, quella sua e quelle degli altri, per lavoro. Oltre che il pollaio e il cortile. Oltre che le zampe delle galline. Oltre che le scale per scendere nel giardino. Oltre che le spoglie povere delle sue amate galline quando se ne vanno, in modo tragico, per lo più, ma pur sempre aggraziato, gentile, composto, garbato. Anzi, son riguardose nel lasciare il mondo. Può essere che le galline sian figli e che una donna ne sia madre? Sì. Lei sarebbe stata una buona madre.
Forse anche per quello le risulta difficile abbandonare l’idea di non esserlo stata mai e di non poterlo divenire nell’oggi delle parole scritte e della vicenda narrata, come pure nel domani. È per questo che nel mio lavoro altro, quello di medico, mi occupo di genitori che madri e padri vorrebbero esserlo ma non ci riescono e forse non ci riusciranno neppure mai. Mi prendo cura dei padri nello specifico, che padri biologi non sono ancora, e forse appunto non saranno. Io come loro. Allora è l’accudimento per le galline che torna, si fa prepotente, forma altra di bene che si dedica e che si dona. Con quel bisogno soffocante all’amore da dare, e da ricevere.
Quattro galline è un bel romanzo.
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Jackie Polzin, Quattro galline, Einaudi, Torino, 2022
Edizione Originale: Brood, Doubleday, New York, 2021