“VENERDÌ DI-VERSO”
“Il cuore dell’uomo non fa l’abitudine ai miracoli.”
Amore, non sono io la mamma tua?
No, non sei tu.
Non fosse per il lessico ricercato ma leggero, per il gusto tutto cinematografico delle descrizioni, per la macchiettistica di alcuni personaggi (perlopiù uomini), per lo sguardo distaccato da direttore d’orchestra, queste due righe sarebbero inizio e fine di un dramma dalla potenza inesauribile. Per buona grazia dell’autore ci sono un sacco di “non fosse per” a rendere più digeribile questo spunto magico e surreale che fa da abbrivio alla storia, altrimenti ci basterebbe un secondo di immedesimazione per inorridire senza scampo.
La trama è un filo abbastanza breve da riavvolgere: nel giorno del suo settimo compleanno, Mario Parigi, bimbo di buona famiglia, cade in una specie di trance, che lo restituisce al mondo Ramiro, figlio di Luciana Veracina, al secolo morto e defunto sette anni prima, quello stesso giorno.
Questo accadimento inspiegabile (e infine inspiegato) non accende i riflettori sul bambino quanto più sulle due madri: l’una, Arianna, sgomenta, abbacinata dall’insensatezza e dal dolore, l’altra, Luciana, come improvvisamente riavutasi da un brutto sogno durato sette anni. Le due figure antitetiche si muovono nel romanzo con movimenti ondeggianti, che le avvicinano e allontanano dal baricentro magnetico del figlio, costrette a confrontarsi con la reciproca esistenza, con il loro amore di madri, con una città e un intreccio di trama che le vorrebbero avversarie ma cui loro non si piegano.
Sono figure dipinte con pochi tratti distintivi, sono terra e cielo, concretezza e astrazione, sconforto e fede. Mentre gli eventi le conducono in questo folle viaggio, mari mitici e uomini opachi si avvicendano sullo sfondo, placando l’intensità del dramma e concedendo al lettore di andare avanti, come in un dormiveglia, senza sapere se il filo onirico su cui sta camminando sarà ancora saldo al risveglio o se lo precipiterà in un finale del tutto inaspettato.
Leggere questo romanzo è un’esperienza straniante per la bella e pacata voce di Bontempelli che si cimenta con fare curioso nella costruzione di una storia dai precisi contorni stilistici e, al contempo, per l’enormità psicologica del motore narrativo. Questo stesso motore non è approfondito, non vi è indagine, scavo dell’animo umano, come a dire: sì il fatto é enorme, inverosimile, surreale ma Lettore non t’incastrare, vieni con me, andiamo avanti e vediamo che succede. “Una torbida inerzia scendeva come un coperchio pesante a deformare il dramma augusto, a spegnerne la luce.” In questo romanzo la magnitudo del fantastico si piega alla placidità del reale, con una morbidezza tale da indurci a pensare quel e se accadesse davvero..?
Utopia ha davvero recuperato ed editato prodigiosamente un piccolo gioiello, incastonato in una lingua per alcuni versi lontana nel tempo ma che pure consola le nostre orecchie da tante brutture quotidiane. A tratti angosciante, sul filo dell’epica e dell’incanto, ruba poco del nostro tempo e ci regala invece quella sospensione dell’incredulità che tanto bene può fare ai nostri spiriti appannati dalla contingenza.
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Massimo Bontempelli, Il figlio di due madri, Utopia, Milano, 2021