“VENERDÌ DI-VERSO”
“Le notti sono lunghe e senza pace per i soli, per gli indifesi.“
Se i cent’anni di solitudine non fossero trascorsi nella sperduta Macondo ma un po’ più a nord, tra i fiordi di una Danimarca abbacinante e favolosa?
Guerre, amanti, apparizioni, paesaggi così struggenti da essere irreali eppure eccoli lì, davanti ai nostri occhi, luminosi. Cuori divorati da passioni che sono fredde come il ghiaccio e come il ghiaccio bruciano; personaggi che riappaiono come evocati da un destino imperscrutabile; lo spirito del Tempo che sovrasta la morti e gli uomini, che lascia sbigottiti.
“Mikkel guardò oltre le colline basse e pensò che solo la campagna dura, mentre le generazioni l’attraversano come ombre di nuvole“. La grandiosità effimera di una vita, di molte vite, di un Paese, della Storia.
È davvero complesso spiegare la bellezza di queste pagine. A voler dire qualcosa, a voler trovare un punto di partenza, si potrebbe parlare dell’arte della descrizione. Siamo lettori saturi di immagini in più d’un senso: sia da un punto di vista letterario sia da un punto di vista più pragmatico, attuale. Siamo così bombardati che visivamente ormai guardiamo senza vedere e letterariamente cadiamo facili prede della noia. Perché una descrizione come è noto toglie tempo e spazio all’azione e chi se lo può permettere, questo lusso. Eppure. Leggere questo romanzo è come rimanere “vittime” di un miracoloso incantesimo: gli occhi della mente vogliono tornare indietro e riassaporare ogni dettaglio, ogni metafora, ogni sfumatura di luce e colore. Si scioglie ogni fretta e vogliamo cullarci nella contemplazione di quell’attimo.
“Nella sua discesa il falò del sole trovò spazio per mostrare le sue fiamme e tutte le nubi scivolarono via dal cielo come un occhio che lentamente si apre. Quando il sole fu tramontato, il cielo rimase a lungo luminoso e pallido. Il rosso serale s’intensificò a ovest, il cielo pensava, era così ampio quel crepuscolo che calava, era così composto il fresco della sera”.
Ma ecco non c’è solo questo – J.V.Jensen scrive nel 1900, parla del 1500 e fa quella cosa, quel gesto esatto che lancia un autore oltre il confine della dimenticanza: descrive un uomo, un cuore, una mente senza tempo. Perciò non importa più se a tutti gli effetti noi non ci si prenda a spadate e non si cerchi tesori e (forse) si abbia un po’ più di creanza nelle relazioni con l’altro sesso – tutta la Storia che ci separa, quella che si misura in anni, collassa su se stessa negli ultimi istanti di un uomo che muore o di uno che ama, di quello che cerca vendetta o di quello che scappa (non fosse che per cercare tutta la vita di tornare).
Diceva Baricco in un bel monologo sul Cyrano: la guerra, la morte, certi dolori, comprimono tutte le possibilità, le avvitano, talvolta con dolcezza, altre con meno garbo, ma alla fine stillano poche gocce da quel preciso momento ed è facile che in quelle gocce ci sia della verità. Così noi oggi leggiamo “La caduta del re” e, prestando la dovuta attenzione, scorgiamo quei quasi cent’anni del protagonista comprimersi, strizzar fuori qualche goccia – ed è un attimo scorgervi una verità, prima che tocchi il suolo ed evapori, nella grandiosità effimera di una vita, di molte vite.
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Johannes V. Jensen, La caduta del re, Carbonio, Milano, 2021
Edizione Originale: Kongens Fald, 1900