“VENERDÌ DI-VERSO”
“…sorpreso di quanto avessi vissuto, ancora incerto di come sarebbe andata a finire.”
Forse servirebbe una recensione per ogni capitolo. Oppure quelle domande scolastiche di comprensione del testo, per una volta senza l’osceno assillo di un “giusto” o “sbagliato”.
Perché questo, signori, è un libro che di domande ne pone tante. A partire dalla scelta di una popolazione del sottobosco come protagonista: è una fiaba (nera)? una satira? un esercizio di stile? (antipatici)… Dove siamo?
Siamo all’inizio di una vita: la vita di una piccola faina chiamata Archy. Per metterci subito a nostro agio con la situazione, già di per sé straniante, l’incipit del romanzo propone: la vedova di un bandito morto di morte violenta un cucciolo nato morto quattro orfani di padre affamati e mezzi congelati sberle materne che cavano gli occhi eccetera.
È la legge della natura – ci sembra crudele ma giusta perché parliamo di animali; perché non si parla di noi. Noi, noi umani siamo meglio di così (ah!).
Scrivere una storia di animali è uno stratagemma letterario che porta con sé tante conseguenze: condensa il tempo di una vita in poche stagioni, accelerando le emozioni, i traumi, gli insegnamenti, le perdite. Ci stordisce per la crudezza di certe azioni, siano esse buone o malvagie – ma ha senso parlare di bene e male, giusto e sbagliato in questo universo zoomorfo? E subito, ha senso parlare di bene e male? Riflette Archy: “Mi assolsi, e feci pace con chi mi aveva ferito, perché al di fuori delle nostre teste, ogni dolore non ha peso: perché il male non esiste.”
Quello che allora risulta veramente disarmante è il continuo rimescolamento di umanità e animalità, eternamente compartecipi, in un equilibrismo ambiguo che riesce nel sempre nobile intento di mettere a disagio il lettore. Si è letteralmente scomodi nella lettura, poiché non ci si sa più collocare: nell’istintualità libera dell’animale o nella coscienza raziocinante dell’uomo? E quale virtù associamo in maniera assiomatica alla consapevolezza e alla conoscenza? È potere o illusione? Sapere ci salva o ci danna? L’animale che ambisce al ruolo di figlio di Dio accantonando la propria natura vince o perde il Paradiso?
I concetti – Amore, Morte, Tempo, Dio – liberano dalla paura? “Le parole sono calde?” chiede Anja ad Archy, ormai passato dal ruolo di allievo a quello di pater familias. Scaldano ciò che possono, verrebbe da rispondere, ma bruciano molto altro. Il Lord Chandos di Hoffmansthal direbbe che bruciano la possibilità di descrivere un mondo interiore di immensi tumulti e inenarrabili piccolezze – le parole non solo armano un intelletto, ma possono anche limitarlo. Eppure, che fare? Tornare alla selvaggia vita animale, ai preludi della civiltà? Dell’animale l’autore proclama il dono supremo e l’infimo confine: vivere dell’istante. È nell’istante presente che si trova l’unica pace possibile, è nell’istante presente che si perdono ricordi e speranze. Non sembrano esserci soluzioni o compromessi – cantavano le Luci: “Non c’è niente da dire, niente da spiegare, niente da capire, c’è solo da esistere, da lasciare correre…”
E dopo tante domande lasciate aperte, chiudiamo con una minuta ma fondamentale certezza: essere messi a disagio da un giovane autore al suo esordio è un privilegio; sentire il baricentro spostarsi e perdere l’equilibrio nella limpidezza di una frase costruita senza presunzione, bianca nella sua esattezza, fa levare il cappello e porgere la testa in un inchino lieve di genuina riconoscenza.
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Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio, Palermo, 2021