“VENERDÌ DI-VERSO”
“L’edificio è sontuoso ma il regno è in rovina.”
Innanzitutto bisogna dormirci su.
Bisogna addormentarsi con delle domande, delle immagini in testa, confidare che si chiariscano dietro alle palpebre chiuse, bisogna lasciar sedimentare le visioni, chiedersi cosa è stato reale, cosa no, chiedersi se ha importanza.
La trama è presto detta. C’è un uomo che è un cacciatore, un padre e un chirurgo, un uomo con le sue definizioni. Ce lo presenta, Lang, in un subitaneo momento di smarrimento, mentre si domanda che tipo di potere sia quello concesso dalla tecnica alla violenza umana, la possibilità di uccidere un cervo maestoso, signore dei boschi, grazie ad una lieve pressione dell’indice sul grilletto. Lontano, inattaccabile. Quella catena causale di gesti e moventi di cui l’animale ignora l’inizio e subisce la fine. Il nostro Francois è qui, in un limbo d’interrogazione. Da questo punto di domanda si dipanano due giorni densi, inspiegabili, scivolosi, giorni di cui l’uomo non conosce l’inizio e subisce la fine. Procede nella sua interrogazione a passi che vorrebbero essere cauti ma che gli eventi rendono precipitosi.
Il cervo, la visione enigmatica della figlia in un SUV che rischia di finire fuori strada, il breve incontro con il figlio, signore della finanza virtuale, la ricerca della moglie sparita dal convento in cui si era misticamente ritirata, l’apparizione della figlia con il fidanzato ferito quasi a morte, il cervo, il tentativo di salvazione, l’apocalisse. Pezzi di una vita che si sgretola in fotogrammi irricomponibili.
Francois ha una moglie, due figli, un lavoro e tutto gli sfugge di mano, inesorabilmente – “Se ne chiedesse il motivo sarebbe come vedere l’abisso, il suo corpo che cade, e nell’intervallo dei pochi secondi che gli restano da vivere, con il rancore sulle labbra, esigere di capire perché cade.”
Perché cade? La distanza dai figli ha un sapore di incomprensione generazionale, ma c’è qualcosa di più – il loro mondo è costruito su fondamenta che lui non ha scavato e quindi a sfuggire non è solo il risultato della costruzione ma anche l’origine di quelle fondamenta che nulla hanno a che fare con le sue radici, con quello che sa, o crede di sapere, sul significato dell’essere umani.
La tentazione – e qui potremmo sbagliarci ma – è quella, seducente e terrificante, di perdere la speranza. Nella caduta, nello smarrimento, nella paura – arrendersi, lasciare andare. Sperare richiede una tale dose di coraggio, di fiducia, di immaginazione… sperare non è un gesto vuoto, non è un palloncino al vento, è la concentrazione dello sguardo che cerca di distinguere una vela nell’immensità abbacinante dell’orizzonte. La tentazione è quella di abdicare al ruolo, a qualsiasi ruolo, quello di padre, di medico, di umano. Al lettore, la possibilità di scorgere nelle sue scelte il gesto della resa o l’ardimento del riscatto.
C’è uno stratagemma stilistico che Lang adotta e che merita la nostra attenzione. Ogni capitolo (sono quattro, quindi lo fa due volte) è una sorta di doppione di quello precedente: riprende lo stesso lasso temporale ma lo declina in maniera leggermente diversa, quel tanto da consentirci di cogliere nuovi nodi e nuovi spazi nella rete degli eventi; quella stessa scena potrebbe essere riscritta altre dieci volte, svelando ogni volta un nuovo dettaglio essenziale. Così i movimenti, le apparizioni, i paesaggi (stupendi, tristissimi) e la scrittura si ripiegano impercettibilmente su se stessi, ci invitano alla rilettura, al passo indietro, alla pausa.
Insomma, bisogna dormirci su.
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Luc Lang, La tentazione, Edizioni Clichy, Milano, 2021
Edizione originale: La Tentation, Éditions Stock, Paris, 2019