Scritto da Luca Bellomo
Quella piccola ombra, non smetteva mai di perseguitarlo.
Infastidiva le sue ore del sonno, senza permettergli di dormire, e quasi sembrava non gliene importasse di quanto le giornate fossero impegnative per lui.
Di giorno, non si vedeva. Ma non appena calava la notte, eccola lì.
Eppure, lui aveva provato a capire che cosa la provocasse: teneva le tende tirate, impedendo alla luce del lampione antistante la finestra di penetrare; aveva riposto una vecchia coperta sopra lo specchio appoggiato alla parete di fronte al letto, per far sì che non vi fossero riflessi. E, ovviamente, spegneva tutte le luci.
Nonostante ciò, quella piccola ombra compariva lo stesso. Piccola, insinuante, tremolante e malefica. Sembrava volersi far beffe di lui.
Si avvicinava piano piano, ma appena lui si alzava, scappava nuovamente nel suo angolino.
Codarda – aveva pensato – non hai nemmeno il coraggio di affrontarmi.
“Lasciala perdere” disse sua madre quando lui provò a raccontarle l’accaduto “sarà soltanto un gioco di ombre. Tu continua a dormire e vedrai che se ne andrà”.
Ma lui non riusciva a chiudere occhio. Quella insignificante macchia nera lo faceva sentire osservato, minacciato, con quel pauroso sentimento che se avesse abbassato la guardia il nemico avrebbe sferrato un attacco a sorpresa.
Quindi, di dormire, non se ne parlava.
La professoressa, a scuola, aveva notato che il suo rendimento era calato, e lo aveva ammonito di studiare di più altrimenti “ci rivediamo a settembre”.
I suoi compagni di classe non avevano ignorato quelle occhiaie che negli ultimi mesi avevano cominciato a solcargli il viso, come se fosse invecchiato improvvisamente di vent’anni in poche settimane. Quelli degli anni più avanti avevano cominciato a canzonarlo chiamandolo “Piccolo Panda” o “L’uomo senza ombra”.
E come spiegargli che il tutto era dovuto a una piccola ombra, che non lo lasciava dormire.
Era senza sonno a casa sua. Se lo avesse raccontato, sarebbe stato senza sonno in un manicomio.
Ci aveva provato a parlarne con Massimo, il suo migliore amico: “Certo che sei veramente bravo a raccontare storie tu!” – era stata la risposta dopo qualche secondo di silenzio alla fine del suo monologo – “Pensa che per un attimo ci stavo per credere! Dai smettila, altrimenti dovrò dire a tua madre di farti rinchiudere!”.
Si arrese immediatamente, e non cercò di difendersi da quel fastidioso sarcasmo.
Tornava sempre a casa che era giorno, e non riusciva a dormire con la luce, nemmeno se abbassava le tapparelle. Quindi faceva i compiti, con gli occhi pesanti e scarsa capacità di concentrazione, aspettava che la madre tornasse dal lavoro, cenava, e poi cercava di coricarsi.
Ma immancabile in quella monotona routine, l’ombra era sempre lì, in quell’angolo.
Lui si girava, lei si allontanava, poi si girava, lei si riavvicinava e appena il giorno faceva capolino interrompendo l’oscurità della notte, scompariva.
Stava lì a guardarlo. Tutte le notti. Privandolo del sonno.
Finché un giorno, stremato dalla stanchezza e dalle ore di sonno inesistenti, lui si girò, la guardò, e a denti stretti disse: “Lasciami stare adesso, vai via”.
L’ombra si immobilizzò, ma senza smettere di scrutarlo e senza dare segno di voler finalmente liberare le sue notti senza riposo.
Allora si alzò, si avvicino a quell’angolino posto in alto e tana della sua acerrima nemica. Strinse i pugni, riempì i polmoni di aria e urlò “LASCIAMI STARE ADESSO, VAI VIA!”.
E fu così che l’ombra si destò nuovamente, e cominciò a farsi più grande, enorme, fino a riempire tutta la stanza e senza confini.
Impermalita da quel gesto di rabbia, lo prese con sé e lo portò via, immergendolo nell’oscurità. Trascinandolo in un posto dove nessuno vorrebbe mai stare.
Nessuno lo rivide mai più.
Forse aveva ragione sua madre. Forse era solo un “Gioco di ombre” e doveva lasciarla stare.
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