I libri scelti da Andrea Salonia
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Se sei un medico, dovresti leggerlo.
Se sei un paziente, dovresti leggerlo.
Se sei un individuo senziente, dovresti leggerlo.
Questa la prima e più verace impressione che traggo dall’aver mangiato in un sol boccone Bianco è il colore del danno di Francesca Mannocchi, edito da Einaudi Stile Libero. Anche qui: evviva il passaparola; un’amica, che di lettere e letteratura e scrittori e pagine scritte moltissimo ne sa e benissimo ne capisce, un giorno mi ha detto: tu dovresti leggerlo, credo a te potrebbe piacere, e lo ha fatto con quella sua garbata modalità del condizionale che suggerisce senza mai imporre. Quanto mi piace questa “signora” che possiede sempre un giusto meridiano per orientarla tra le parole, e quanto grato le sono per questo suo importante suggerimento. Sì, perché se anche da medico di Bianco è il colore del danno potresti non condividere tutto, da lettore, da uomo, da donna, da persona, non potrai che rimanerne colpito, un gancio sulla mandibola, con tanto di conseguente neuroprassia emozionale di lunga durata.
In primis, il romanzo di Francesca Mannocchi racconta di una malattia, della sua malattia, sua proprio di lei, e pertanto vissuta e raccontata con la sensorialità che solo la prima persona e il presente del vivere permettono di esprimere. Con una narrazione coinvolgente e avvolgente insieme. Asciutta e fresca assieme. Spietata e tanto ruvida che ti senti la carta vetrata sul viso alla fine delle pagine. Senza che le parole si risparmino mai e mai ti risparmino qualcosa del suo pensiero e di una certa qual personale elaborazione del tutto. Sono pagine per immagini quelle che si succedono una dopo l’altra in Bianco è il colore del danno, brevi servizi giornalistici resi documentari dell’esistenza che cambia e della persona che cambia lungo l’esistenza stessa. E ciò molto si confà al modo di raccontare il quotidiano di Francesca Mannocchi, il terribile quotidiano con cui oggi la ascoltiamo nel suo viaggio attraverso questa guerra blue e gialla, e in molte altre guerre in un recente passato. Dura. Concreta. Emozionante.
Non so se il racconto di una malattia di suo evochi e promuova una sorta di captatio benevolentiae, qualsivoglia la malattia sia, soprattutto se lunga, cronica, imperitura, e qui nello specifico la sclerosi multipla, che ben conosco per averci avuto vicinanza da quando son medico, e ancora avercene quotidianità. Anzi no: mi son fatto convinto che, al contrario, parlare di una malattia che posso curare senza guarirla, che rimane lì, sorniona ma insidiosa insieme, con i suoi lampi improvvisi nella notte, e il rumore assordante che “attonita” sgradevolmente nel bel mezzo della normalità delle giornate, ecco, tutto ciò è esattamente all’opposto della produrre benevolenza. Mi urtica, invece, provoca in me una sensazione di fastidio e sospetto insieme. No: Bianco è il colore del danno è un romanzo crudo, meravigliosamente ben scritto, in nulla consolatorio, mai censorio, addirittura attaccabrighe per certi versi. Un limpido processo al proprio vivere le situazioni, al modo con cui si è deliberatamente scelto di viverle, una trasparente messa a nudo delle proprie intenzioni, del ribellismo che conosciamo in quel romanzo di formazione che è sempre la vita.
Bianco è il colore del danno non è un romanzo di accettazione di una condizione. Francesca Mannocchi non dà mai l’impressione di accettare la malattia, non in forma attiva, e neppure passivamente. Questo, almeno, è ciò che mi è parso. La malattia attraversa Francesca, invade le sue giornate senza che mai queste se ne lascino invadere, senza che ne siano sopraffatte, senza che in un solo momento ne vengano stigmatizzate da quell’orribile buonismo che talvolta siamo propensi a intuire di fronte a una devastante affezione – quale la sua, che potrebbe accecarti, immobilizzarti, renderti meno cogitante, meno empatico e socialmente “sgradevole”. Proprio no: qui di buonista non c’è nulla. Non è mai uno scrivere ecumenico il suo. Anzi, Francesca Mannocchi ne ha per la sua famiglia, per il sistema sanitario nazionale, per la classe medica, per la malattia che ha in corpo, per gli altri, per l’essere “guasti”, per il valore che viene attribuito al malfunzionamento dei corpi, per i corpi medesimi, per i figli, per l’essere madre, per l’essere amante, per il sesso, per la scuola, per il padre, per il non detto, per i soldi, per…soprattutto ne ha per sé stessa.
È incredibile: da qualche parte in Bianco è il colore del danno ho letto una mia frase, le parole che uso sempre, ogni giorno, parlando con i miei malati, perché i malati sono nostri non appena diventiamo medici e non facciamo i medici: la malattia non è una colpa; non si è mai in colpa per essere malati; non ci si deve sentire in colpa per un disagio del corpo e della mente. E gli altri? Dovrebbero? No, questo credo fermamente.
Grazie Francesca Mannocchi, quanto mi è piaciuto questo tuo romanzo! Perché posso non condividere ogni tuo pensiero, ma al pari condivido tutto.
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Francesca Mannocchi, Bianco è il colore del danno, Einaudi, Torino, 2021